“Il coraggio di conoscere se stessi è un coraggio raro; e sono molti quelli che che preferiscono incontrare il loro acerrimo nemico in campo aperto, piuttosto che il proprio cuore nell’armadio.” (Anonimo)
Il primo modo di vivere senza se stessi è nascondere la propria identità. Il secondo è nell’imporsi una identità che non è la nostra.
Molte persone si creano una identità inautentica e prigioniera del personaggio che mettono in scena con il risultato di vivere una vita artefatta sempre più lontani da se stessi.
Questa autoimposizione, infatti, rende tutto più difficile e artificioso: le reazioni sono calcolate, lo stile di vita e le relazioni perdono di immediatezza e semplicità. Vivere secondo una falsa identità non è per nulla agevole, implica sforzo e fatica come tutto ciò che è innaturale.
Il “posso essere come mi piace pensarmi” escludendo la nostra vera natura significa riprogrammare il software di noi stessi, ritenuto banale e non speciale, introducendo un “virus” che pensiamo possa essere il “cavallo di troia” per diventare finalmente “di classe A” apprezzati da tutti indiscriminatamente.
Il rifiuto dell’identità scatta, quasi sempre, perché si ritiene di essere sbagliati o di non essere meravigliosi quanto si vorrebbe. Tuttavia inventarsi un’altra identità significa far violenza a noi stessi, perché non è facile disabilitare le nostre reazioni emotive naturali per indossare la maschera di qualcun altro immaginato o reale che si ritiene migliore di noi. Continuare a fingere a lungo andare diventa pesante e faticoso.
L’identità che racchiude in sé il temperamento, il carattere e la personalità (leggi QUI e QUI) è qualcosa che va scoperta e non inventata arbitrariamente.
Se essa è artificiale, indossata come un abito di scena, non potrà che essere provvisoria. Si potranno recitare più parti a seconda delle circostanze e delle convenienze passando da una all’altra senza il senso della continuità biografica.
Come ho detto sopra inventarsi una identità risponde al bisogno di trovarsi migliori, superiori, straordinari, non comuni, non come gli altri; tutte caratteristiche che fanno parte della costellazione del “narcisismo”.
E’ difficile rinunciare alla segreta pretesa di essere meravigliosi; la cultura del nostro tempo fa finta di non riconoscere il pericolo del virus narcisistico, facendone una bandiera desiderabile. Per molte persone, specialmente quelle giovani, essere “normali” rappresenta un antivalore perché il messaggio imperante è “Distinguiti!”. Ma possiamo solo inventare personaggi non creare identità.
Ricordiamoci però che la costruzione non è irreversibile, la personalità autentica, quella originale è indelebile, sopravvive clandestinamente nell’oscurità di se stessi. Essa attende solo di essere riconosciuta e accettata smantellando la costruzione artificiale che la teneva prigioniera.
“E’ un vincente!” si dice di una persona, oppure “è un perdente!” senza ormai avvertire neppure un brivido per la disumanità che questi termini evocano.
Se il senso del proprio valore si nutre del confronto con l’inferiore, il solo a far prevalere la nostra superiorità, gli aspetti di mancanza non suscitano più vicinanza o compassione, ma sono motivo di denigrazione e derisione. Il limite altrui, i difetti, le incapacità, i fallimenti suscitano disprezzo divenendo anzi l’occasione per considerare l’altro “non come me”, non “uno del mio giro”.
La prevalenza di questa cultura narcisistica attiva dinamiche perverse di esclusione. Sembra quasi scomparso il desiderio di rapporti paritari, come quelli amicali; sono sempre più i bambini che non vogliono avere amici, ma essere adorati, diventare punti di riferimento. Non amici, quindi, bensì ammiratori; c’è chi arriva addirittura a creare “fans club” già alla scuola elementare, con tanto di tessera.
La nostra cultura ha perso il presupposto che fonda il valore di una persona e questo vuoto è stato riempito con l’ebrezza di sentirsi migliori di altri.
Il narcisismo osannato da pubblicità e media anestetizza la sensibilità verso il dolore degli altri, uccide la pietà e rende feroci, sprezzanti soprattutto con i più deboli e meno fortunati. Esso “mostrifica” le persone poiché distrugge il nucleo più profondo della capacità di amare.
Solo rinunciando al sogno narcisistico possiamo accogliere la nostra vera identità scoprendo infine di non essere poi così male.
Imporci una identità ci rende perennemente instabili perché le parti “indesiderate” non sono integrate bensì negate accentuando l’aspetto opposto, ritenuto desiderabile. Il personaggio così creato diventa alla fine una caricatura perché risponde ad uno stereotipo. Ecco quindi che la forza diventa aggressività, la determinazione si trasforma in cocciutaggine, la capacità di decisione in voglia di imporsi e il coraggio diventa avventatezza.
Chi rinuncia alla propria identità ricerca un vantaggio (evitare il giudizio negativo o il rifiuto affettivo, appagare il bisogno di essere considerato speciale) e tale operazione, per quanto non pienamente consapevole, non è al difuori della responsabilità personale.
Ed è proprio a partire dal riconoscimento di questa responsabilità che può iniziare il cammino di rinascita, cercando di riscattare la parte migliore di sé.
Il recupero dell’identità perduta infatti avviene sempre a caro prezzo, ossia, nel correre quei rischi che si era voluti evitare rinunciando a qualcosa che era sembrato vantaggioso e sicuro.
Comportarsi in conformità con il proprio senso di giustizia, esprimere sinceramente il proprio punto di vista, ad esempio, può esporci alla disapprovazione, eventualità che si era accuratamente cercato di evitare indossando un altro abito. Esplicitare un giudizio comporta dover gestire le conseguenze della nostra presa di posizione “senza se e senza ma”.
Nella rinuncia ad essere se stessi si consuma il tradimento del vero per la paura di non reggere al confronto. Si fa diventare il bene ciò che si intuisce possa piacere all’altro per avere in cambio un simulacro di accettazione; scoprendo poi di non avere nemmeno la stima di coloro per i quali ci si è annullati.
Sotto la paura di essere se stessi si nasconde il più delle volte una pretesa infantile che tuttavia non giustifica il fine. Chi è prigioniero delle proprie paure e non fa nulla per superarle, soffre un patimento inutile e distruttivo per evitare una sofferenza giusta e costruttiva. Si entra nella spirale del vittimismo.
Il compatimento e l’autocommiserazione mettono in ombra la responsabilità e senza l’assunzione della propria responsabilità non c’è trasformazione e rinascita.
liberamente tratto da: O.Poli – “La mia vita senza di me”
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