Pensieri e sentimenti nella ricerca d’amore

amore e stress

“Io non controllo i pensieri, sono loro che controllano me, fino a quando non li indago” Katie Byron

Ieri sistemando la mia zeppa libreria in continua crescita vista la mia compulsiva voracità di mangiatrice di libri, ho ritrovato un testo molto interessante di Katie Byron ideatrice di “The Work” una metodologia per identificare e indagare i pensieri che causano la sofferenza che impedisce alle nostre vite di decollare.

Il testo in questione è “Ho bisogno del tuo amore. È vero?” Riflessioni ed esercizi su come smettere di cercare amore e approvazione e cominciare invece a trovarli.

Visto che in questo periodo il mio lavoro di counselor è soprattutto incentrato ad agevolare le persone ad esplorare il loro mondo di coppia cercando di ripercorrere pensieri ed emozioni che possono causare difficoltà ed impasse nella relazione, mi sembra interessante, questa mattina, postare una riflessione tratta liberamente da questo testo.

All’inizio, dice Katie Byron, può sembrare strano vedere l’infelicità in amore in termini di pensieri. Tuttavia se diamo un’occhiata più profonda ci accorgeremo che esiste sempre un pensiero particolare che innesca qualsiasi situazione che provoca stress.

L’ansia relativa all’amore è il risultato di pensieri semplici e per lo più infantili “Ho bisogno del tuo amore” “Senza di te mi sento persa”; pensieri, questi che pretendono di guidarci verso il vero,amore ma che se non esplorati nella loro dinamica rischiano di diventare grossi ostacoli.

Molto spesso le persone immerse in questo stato di turbamento non riescono a individuare il pensiero che lo provoca, riescono solo a sentirne il flusso emotivo.

Immaginiamo, ad esempio di aprire il nostro cuore al nostro “lui” e che “lui” non solo non risponda ma anche che si alzi e lasci la stanza. Noi, rimaniamo sulla sedia con la sensazione che il mondo sia finito. Il primo pensiero potrebbe esser “Non gli interesso” che potrebbe diventare “perché mi preoccupo? A nessuno importa veramente di me”.

Proviamo ora a ricordare una sensazione passata in cui questo sentire era molto forte, in silenzio lasciamolo emergere. Se non riusciamo a trovare il pensiero che sta dietro l’emozione, cerchiamo di penetrare più in profondità verso il luogo dove la sensazione è più intensa. Questo significa immergerci completamente nella sensazione fisica legata a quell’emozione cercando di ascoltare il corpo, dandogli contemporaneamente voce. Se l’emozione potesse parlare, cosa direbbe e a chi?

Prendiamoci il nostro tempo, senza fretta. Cerchiamo di essere più precisi possibile, altrimenti potremmo dire qualcosa di saggio e amorevole, dando voce a quello che pensiamo “dover” pensare, invece di quello che pensiamo e ci fa star male.

Molto spesso nel momento del dolore, ci sono pensieri che abbiamo avuto per così tanto tempo che non ci rendiamo nemmeno conto di averli lì stretti a noi.

Il secondo passo del “lavoro” che ci insegna Katie Byron è, dopo aver trovato il pensiero, sotteso all’emozione dolorosa, chiederci se è vero. Questo vuol dire tornare nuovamente dentro noi stessi per vedere se il pensiero che provoca turbamento è realmente in accordo con la realtà che stiamo vivendo; molto spesso ci accorgeremo che non è così.

Nel nostro viaggio attraverso la vita i pensieri sono come spari nel buio, tentativi imprecisi per cercare di comprendere cosa accade dentro e fuori di noi. Quando cerchiamo amore, approvazione e riconoscimento, molto pensieri che facciamo hanno il compito di decifrare il comportamento delle persone che ci interessano e soprattutto fare ipotesi su quello che sta succedendo nelle loro teste, come se avessimo il potere di leggervi dentro.

Come bambini ci focalizziamo sull’aspetto allarmante; tornando all’esempio di prima: “lui non mi risponde, si alza e se ne va ….. non gli interessa nulla di quello che dico, non mi vede!” E poi reagiamo di conseguenza, come se il pensiero fosse un fatto. Soffriamo: ci rinchiudiamo in noi stessi o attacchiamo, invece di rispondere alla domanda che il pensiero, come tutti i pensieri, implica “è questo quello che è successo veramente?”.

Ogni sensazione di malessere è un allarme che ci fa sapere che stiamo credendo ad un pensiero non vero.

In questo passaggio, ci dice sempre la Byron, cerchiamo di analizzare cosa provoca quel pensiero nella nostra vita fisica ed emozionale. Quando siamo intrappolati dentro a quel pensiero, chiediamoci “come ci influenza?” “ come trattiamo noi stessi e gli altri, quando crediamo a quel pensiero?” “ ci compatiamo?” “ ci sentiamo feriti e arrabbiati?” “ è qui che diventiamo vittime?”

Dopo di che facciamo un salto con la fantasia e immaginiamo cosa sarebbe la nostra vita senza quel pensiero, se non gli credessimo e se addirittura fossimo incapaci a pensarlo. Evitiamo di preoccuparci se sia vero o no, lo scopo di questo passaggio è sperimentare come sarebbe la nostra vita se non crediamo a quel pensiero. Durante il processo immaginativo, guardiamo il nostro “lui” senza il pensiero “ non gli importa nulla di me”  provando a rimanere un po’ in quell’esperienza.

Lo scopo di questo esercizio è quello di farci notare le conseguenze del credere ad un pensiero e poi provare un assaggio di vita senza pensiero.

Il terzo e ultimo passo dell’indagine sul pensiero è “rigirare” il pensiero.

Come uno specchio la mente ha un modo di comprendere le cose correttamente ma capovolte.

Quindi riprendiamo il nostro pensiero e rigiriamolo, ossia letteralmente invertiamolo in tutti i modi possibili. Poi chiediamoci se queste versioni invertite sembrano altrettanto vere o perfino più vere del pensiero originario.

Facciamo sempre l’esempio di prima e proviamo:

  • Sono io in realtà che non ho riconosciuto e che non mi importa di lui, quando mi sento ferita, mi rinchiudo o mi arrabbio, saltando subito alle conclusioni, giudicandolo duramente.
  • Non mi importa di me stessa, ho trasformato un’azione probabilmente innocente in rifiuto. Sono io che ho creato il disconoscimento  nella mia mente e i miei pensieri arrabbiati mi hanno fatto sentire piccola e inutile.
  • Lui non mi ha rifiutata, gli importa di me, forse stava pensando a qualcosa di altro. Non posso davvero sapere quale fosse la sua intenzione.

Quando la mente vuole provare che ha ragione, può cadere in un solco, come una macchina che si è impantanata. Provare dei rigiri e considerare se possono essere veritieri è come spingere avanti e indietro la nostra macchina per liberarla dal fango.

Quindi ogni volta che abbiamo un pensiero stressante che ci ossessiona, Katie Byron ci lascia quattro domande da farci che possono guidarci verso una nuova valutazione di ciò che provoca il nostro malessere :

  1. È vero?
  2. Possiamo sapere con assoluta certezza che è vero?
  3. Come reagiamo, cosa avviene quando crediamo a quel pensiero?
  4. Cosa saremmo senza il pensiero?

liberamente tratto da: K.Byron – Ho bisogno del tuo amore, è vero? – ed. Il punto d’incontro

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