Cosa è questa presenza dentro di noi di cui siamo a volte vagamente, a volte acutamente consapevoli e che chiamiamo Giudice Interiore? Presenza che ci crea non pochi disagi nella nostra mission di vivere la vita piùfedelmente possibile in accordo con la nostra natura.
Il nome che Freud dà al Giudice “SuperEgo” o “Super-Io”, esprime bene il suo ruolo: il Giudice è sopra l’Ego e il suo nome richiama immagini di controllo e di dominio, immagini di genitori sovrastanti il bambino, immagini del triangolo con l’occhio di Dio che scruta e giudica i peccatori sulla terra.
Ma da dove nasce? Come mai si è formato? Perché abbiamo un Giudice dentro di noi?
Soprattutto nei primi anni la sopravvivenza di un bambino dipende totalmente dalla madre. Essa svolge una funzione insostituibile nel provvedere al nutrimento e a tutti gli altri bisogni del bambino intervenendo laddove il bimbo non riesce a regolare se stesso spontaneamente.
Ma soprattutto la madre è la figura principale che crea un momento dopo l’altro, l’atmosfera dell’ambiente dove vive il bambino. Una madre, come ci tratteggia mirabilmente Massimo Recalcati nel suo saggio “Le mani della madre”, che non è solo “madre del seno” ossia colei che soddisfa i bisogni più elementari del bambino ma diventa “madre del segno”, dove il seno diviene segno del proprio amore.
Il modo in cui la madre lo culla, lo sostiene, lo tocca, lo guarda lascia un’impronta indelebile nella psiche e nel corpo del bambino.
La presenza della madre e soprattutto la qualità di questa presenza, la sua emozionalità generano variazioni spesso significative in quello che viene chiamato “ambiente di sostegno”. Il bambino risponde in maniera diretta e immediata alle variazioni dell’ambiente di sostegno; vediamo quindi come l’armonia e la sostanziale continuità affettiva dell’ambiente di sostegno siano fondamentali per una crescita non traumatica e per lo sviluppo del bambino.
E’ importante quindi notare come la mancanza di continuità o armonia nell’ambiente di sostegno e la carica di emozioni negative da parte della madre si riflettano istantaneamente nel bambino come pericoli a livello di sopravvivenza. La paura di morire, che ne scaturisce, non è un qualcosa a livello emozionale ma una vera e propria esperienza fisica a livello cellulare: la mancanza di calore, contatto, attenzione, una voce alterata o distante, tutto questo raggiunge il bambino come minaccia alla propria vita.
Ad esempio, si potrebbe creare nel bambino un’associazione tra pianto “eccessivo” e reazione di distacco e insofferenza da parte della madre, oppure una in cui il controllo delle feci è gratificato da sorrisi e calore, o un’altra per cui il non gridare viene associato ad un tono di voce calmo e rassicurante e il gridare ad uno secco e sferzante, e così via.
Cominciano, quindi, a delinearsi comportamenti “negativi” dolorosi, in quanto implicano una diminuzione o scomparsa dell’affettività e comportamenti “positivi” che vengono premiati con certe qualità di amore, cura e affetto.
La naturale tendenza del bambino verso la sopravvivenza e lo sviluppo lo porterà allora a cercare e trovare modi per ristabilire un senso di armonia ed equilibrio nell’ambiente di sostegno attraverso azioni che gli permettano di ovviare alla disfunzione affettiva. Tutto questo avverrà attraverso l’inibizione di tutti quei comportamenti giudicati “inaccettabili” da coloro facenti parte l’ambiente di sostegno, a scapito della spontaneità del bambino “costretto” per la sua sopravvivenza a reprimerli.
Le azioni, gli impulsi e le idee indesiderabili saranno quindi inizialmente rifiutati e soppressi e, successivamente, repressi, diventando non più disponibili alla consapevolezza.
Questo processo non è indolore. Di fatto il bambino è obbligato a rifiutare e nascondere delle parti di sé prima ancora di avere la capacità di sperimentarle, conoscerle e capirle in maniera personale.
Sulla base di convinzioni, pregiudizi e valori esterni imposti dalle figure di accudimento egli deve accettare e soccombere o rischiare la punizione, l’umiliazione e l’isolamento.
E’ a questo punto che il bambino svilupperà un meccanismo coercitivo interno che, rappresentando i valori imposti, mantenga il controllo facendo sì che i comportamenti inaccettabili rimangano nell’inconscio e quelli accettabili vengano espressi in modo da ricevere attenzione e riconoscimento.
Il Giudice Interiore, il Super-Io, è l’interiorizzazione di tutte le figure di autorità rilevanti nei primi anni di vita, dei loro valori, giudizi, pregiudizi, divieti, comandamenti. Il Giudice guida la nostra vita creando un sottofondo di valutazioni e ammonizioni costantemente presenti con i quali dobbiamo misurare noi stessi e le nostre azioni in ogni aspetto della vita quotidiana.
A livello subconscio siamo sempre impegnati in un dialogo interno tra una parte di noi che dà consigli e ci spinge affinchè ci si comporti in un certo modo e un’altra parte che reagisce a questi consigli. La dinamica di questo dialogo è molto simile a quella tra genitori e bambino: il Giudice ci tratta come se fossimo ancora quei bambini completamente dipendenti, incapaci di sopravvivere e bisognosi di guida.
Tuttavia il Giudice interiore ha anche un suo perché e avere un Super-Io ben strutturato ci permette di navigare nella vita quotidiana con una relativa facilità fornendoci criteri di comportamento sociale che, pur obbligandoci alla conformità, ci permettono di sopravvivere.
Naturalmente gli imperativi, le ammonizioni, i pregiudizi limitano molto il contatto con la nostra vera natura. Di fatto è come se all’età che abbiamo, venti, trenta, quaranta o più anni, ci vestissimo ancora con gli abiti che vestivamo a sette, otto anni; inevitabilmente ci vanno stretti, inevitabilmente ci portiamo appresso un grosso senso di insoddisfazione e la sensazione di non essere veri.
Ecco che, a questo punto, diventa di fondamentale importanza interrogarci su cosa vogliamo fare della nostra vita: sopravvivere o vivere?
Ma questa è un’altra storia e se ti va puoi seguirmi nel prossimo post ….