“La felicità è il risultato dell’azione giusta” A.Comte-Sponville
La pro-attività può essere un’occasione ma anche una minaccia, vediamo in che modo.
Può essere un’occasione per trovare la propria autorealizzazione ma anche minaccia di fallire e di essere giudicati per questo.
Agire è necessario ma non in qualsiasi stato d’animo e a qualsiasi prezzo; d’altra parte non dobbiamo fare dell’inazione l’unica maniera per proteggere la nostra autostima.
Il grado di dolore che un’azione può arrecare al nostro sistema di autovalutazione interiore viene notevolmente influenzato dal modo in cui l’azione è preceduta da anticipazioni più o meno inquiete e rimuginii più o meno realistici. La cosiddetta “ansia anticipatoria da prestazione”, quel tormento che ci pervade nell’imminenza di un’azione e che spesso ci fa desistere dal fare quel famoso e fondamentale “primo passo” e che durante la messa in azione, se non ci siamo bloccati prima, ci fa procedere ossessionati dal rischio del fallimento e alla fine dell’azione, come se non bastasse, ci fa vivere ancora più angosciati nell’attesa di una nuova azione.
E’ quindi fondamentale riflettere sulle buone regole per un azione serena.
La prima è quella di moltiplicare le azioni per banalizzarne la paura.
La poca pro-attività ci fa ingigantire gli ostacoli, gli inconvenienti dovuti ai fallimenti o le difficoltà dei possibili contrattempi.
Ci fa anche idealizzare il significato dell’azione: a meno di compierla perfettamente, non ce ne riconosciamo il diritto; da ciò quindi la tendenza a rimandare.
Questa è una delle ragioni per cui nei percorsi di counseling che propongo, spesso invito la persona che ha difficoltà, a mettersi in gioco ad esercitarsi, dando dei veri e propri “home work”, ripetendo piccole pratiche per prendere confidenza con la “messa in atto”. Azioni semplici, come telefonare a dieci negozi diversi per chiedere un’informazione oppure chiedere la strada o l’ora a dieci passanti per la strada, che nella loro moltiplicazione insegnano l’ovvietà di certi gesti ripulendoli dalla paura della prestazione.
In questo caso non si parla di un superamento eroico di sé ma semplicemente di riprendere contatto con la vita, riflettendo su quelle che sono le difficoltà vere e su quelle che lo sono solo in parte per renderci conto che il più delle volte siamo noi stressi a crearci degli ostacoli.
Un altro problema relativo all’azione è quello della flessibilità: se è tanto importante sapersi impegnare nell’azione, altrettanto è disimpegnarsi in funzione alle informazioni che si sono ottenute man mano che procediamo.
Se, per alcune persone, è difficile partire, le stesse, una volta iniziato, non sanno più fermarsi. Questa difficoltà a frenare viene chiamata “perseveranza nevrotica”, l’ostinazione fine a se stessa il cui motto potrebbe essere: “adesso che ho cominciato, devo finire e arrivare a tutti i costi”.
Cosa significa essere flessibili? Vuol dire saper rinunciare a proseguire quando ci si rende conto che il raggiungimento dell’obiettivo potrebbe essere troppo costoso in termini di tempo e di energie.
Le buone regole dell’agire bene a volte richiedono il sapervi rinunciare e per fare questo oltre ad una buona dose di flessibilità c’è bisogno anche di una discreta autostima in modo da non sentirci sminuiti per il fatto di smettere o di cambiare idea.
Ecco quindi la seconda regola che potremmo riassumere con la “capacità di un’azione flessibile: sapersi impegnare e sapersi fermare”
Di per sé difficile, questa capacità d rinunciare e di disimpegnarsi è ancora più complessa quando riguarda impegni presi di fronte agli altri, di fondamentale importanza diventa, quindi, riconoscersi questi diritti:
- Il diritto di sbagliare
- Il diritto di fermarsi
- Il diritto di cambiare idea
- Il diritto di deludere
- Il diritto di arrivare ad un risultato imperfetto.
In mancanza di questo saremo potenzialmente vittime di tutte le possibili manipolazioni, oltre che vittime di noi stessi e della nostra testardaggine.
Gli stereotipi sociali valorizzano eccessivamente il fatto di non cambiare mai idea, stiamo attenti a questa trappola che potrebbe portarci in strade senza via d’uscita dove l’unica meta che potremmo raggiungere sarà la frustrazione.
Terza regola : non dobbiamo agire soltanto per riuscire o per ottenere un risultato. Dobbiamo anche agire per l’azione stessa.
In un certo senso l’essere umano è nato per l’azione ed esiste un legame indissolubile tra il suo benessere e l’agire quotidiano; l’azione appaga …..
La formula vincente è “essere presente in tutto quello che faccio”. Assorbirmi nell’azione e abituarmi regolarmente a non giudicare quello che faccio, se è riuscito o no. Semplicemente farlo, oppure non farlo ma in piena coscienza e in totale accettazione.
Un giorno una mia cliente , alla fine di un percorso, mi ha restituito una frase che potrebbe essere la prima buona regola di un buon agire “per far bene, a volte bisogna sapere non far niente”!