“Per duemila anni, ho camminato verso di te
Per entrare in questa stanza, e restare vicino a te”
Sainko Namtchylak
Vorrei proseguire in questa terra dell’amore postando qualche altra riflessione ….
L’incontro con l’altro porta con sé un’indicibile nostalgia di qualcosa che non si conosce. Uno struggimento, dolcissimo, di ciò che nemmeno si sa. L’altro ci mancava già prima, ancora di conoscerlo. Questa sensazione sottile appartiene intimamente all’innamoramento.
Di solito, infatti, si sente proprio quello, un nitido, preciso senso di appartenenza profonda che va oltre la ragionevolezza della situazione. Qualcosa che trascende il momento reale, che si avvicina all’idea di un destino, di una chiamata inevitabile, di una necessità: un appuntamento.
Dovevamo incontrarci. Dovevamo incontrarci perché era scritto, perché prima eravamo uniti e poi ci hanno divisi e adesso finalmente ci siamo ritrovati.
E voilà, ci siamo, ecco il buon vecchio mito platonico dell’androgino, quello che sta alla base di tutta la storia , romantica e struggente, dell’anima gemella.
Il mito è noto. Platone, nel Simposio, lo racconta più o meno così.
All’inizio non c’era distinzione tra i sessi. Eravamo Uno, l’androgino perfetto. Bruttarello in verità. Con quattro braccia, quattro gambe, due volti su un’unica testa e due organi genitali. Poi un giorno l’androgino, per superbia e ambizione, si ribella agli dei e tenta addirittura di dare l’assalto al cielo. Zeus lo punisce duramente: lo divide a metà, costringendo da quel momento gli uomini – nati da questo taglio – a vagare perennemente in cerca della propria metà perduta. Il desiderio sta esattamente lì nella separazione. E’ perché siamo separati che ci cerchiamo e ci cerchiamo continuamente.
Bisogna ammetterlo, la storia dell’anima gemella è una bella fregatura. Perché pone almeno un paio di problemini. Primo: se è uno, e solo uno, il nostro perfetto corrispettivo, che facciamo se putacaso non riusciamo a trovarlo? Che ne facciamo, eventualmente, di tutti i surrogati che ci si parano davanti? Secondo: posto che l’abbiamo trovato, il nostro corrispettivo originario, dove andiamo a sbattere la testa se per caso – ed è un caso quanto mai probabile – lo dovessimo perdere?
I più pragmatici diranno che se l’abbiamo perduta, allora non era davvero la nostra metà, perché altrimenti saremmo rimasti uniti, come una cosa sola. Si sa, però, che queste considerazioni razionali a poco valgono: la sensazione di aver perduto l’Unico amore è qualcosa di davvero sconvolgente, uno strazio che non ha uguali.
Il mito dell’anima gemella è una trappola romantica di prima grandezza. E’ una trappola infida perché succede proprio così: di fronte ad un certo paio di occhi, un certo giorno, con quella certa luce, in quel certo posto non possiamo eludere l’idea fantastica che proprio quegli occhi abbiano a che fare, in modo misterioso ed inspiegabile, con noi. Che ci sia qualcosa che ci riguarda, lì dentro. E che vogliamo andare a vedere a tutti i costi cosa è.
Freud, è noto, dice che in amore noi amiamo un oggetto perduto. Che nell’amore adulto ricerchiamo, inconsciamente, l’oggetto d’amore dell’infanzia. La madre.
Anche per i neuroscienziati la memoria richiamata dall’altro è memoria dei primi mesi di vita. Le emozioni impresse durante la primissima infanzia dal rapporto con le persone che si sono prese cura di noi sono così potenti da influenzare tutta la nostra vita emotiva successiva, le nostre reazioni e le nostre scelte.
Gli occhi dell’altro,allora, ci parlano forse lo stesso linguaggio senza parole che abbiamo usato da neonati, nella culla, scambiando segnali con gli occhi di nostra madre.
L’altro arriva e riattiva il fantasma del nostro passato: il ruolo della memoria nell’attrazione è fondamentale. C’è effettivamente un “prima e altrove” e sta nella nostra infanzia.
“Nasciamo da una separazione da cui non ci riprendiamo più, e da allora facciamo di tutto, disponiamo ogni cosa, pensiamo, respiriamo, immaginiamo, corriamo dei rischi, amiamo, portandoci sempre dietro l’assurdità di essere nati e di essere soli, di essere stati due e di essere uno solo” (A.Dufourmantelle)
Non ce la ricordiamo più, l’abbiamo rimossa, ma è questa separazione originaria, una specie di perdita iniziale che va ben oltre la madre, a produrre forse la realtà più intima del desiderio e dell’amore.
Amiamo, inseguiamo qualcosa che è sempre stato perduto, ed sempre stato desiderato come tale. Bellissimo. Struggente ….