Andy Warhol – Madre e figlia: Tina e Lisa Bilotti – 1981
Ogni incontro amoroso è, in parte, frutto della continua riedizione del nostro passato emotivo in relazione alle figure dei genitori: nasce dalla ricerca di soddisfazione di un desiderio infantile frustrato.
Infatti alla base delle nostre scelte di amore, come ho più volte ripetuto in precedenti post, c’è il primitivo rapporto che abbiamo avuto con nostra madre, che segna la nostra capacità di essere più o meno intime con l’altro. Mentre il apporto con il padre determina la nostra scelta, inconscia, di un certo “modello” d’uomo come quello più adatto a noi.
Con il termine “bonding” si intende quell’importante legame che si crea tra madre e figlia fin dalla nascita: lo sviluppo psicologico di ogni bambina dipende dal fatto che lei si senta contenuta dalla madre, sia quando fisicamente la tiene in braccio e gli fa da seconda pelle offrendole il seno, sia perché mentalmente la tiene nella sua testa pensando al posto suo, fino a quando la bambina non sarà in grado di farlo da sola.
Dall’affetto che la madre prova per la figlia e che esprime con lo sguardo, le carezze e con ogni gesto, dipenderà l’amore che la bambina proverà per se stessa, la sua capacità di volersi bene.
Ogni bambina è in fusione con la madre fin dal momento del concepimento e prima della nascita la simbiosi è completa: si trova nel corpo della madre e vive attraverso i suoi organi. La nascita segna la fine, solo parziale, del legame perché lei deve continuare a nutrirsi dal corpo della madre, con il suo latte.
Il comportamento che nostra madre ha messo in atto con noi, nel primo anno di vita, influenza le nostre successive modalità affettive: se è stata attenta ai nostri segnali di sofferenza, pronta nella risposta e disponibile alle nostre richieste e a soddisfare i bisogni di cura e di protezione, allora noi siamo diventate bambine “sane” perché abbiamo avuto una base sicura a cui tornare in caso di pericolo e da cui partire per l’esplorazione del mondo circostante.
Abbiamo, in altre parole, sviluppato la convinzione interna di essere degne di amore e d’aiuto e, perciò, siamo anche in grado di instaurare con i nostri partner rapporti affettivi basati sulla fiducia e sull’accettazione dell’altro.
Ma se nostra madre rifiutava il contatto fisico con noi, non accoglieva le nostre richieste di aiuto e di conforto, era evitante, allora siamo cresciute pensando di essere donne non amabili, che possono fidarsi solo di se stesse in un mondo di persone ostili da cui bisogna difendersi.
Tendiamo così a sviluppare comportamenti di falsa autonomia, non diamo importanza ai legami affettivi e instauriamo rapporti di coppia basati sulla distanza emotiva e fisica per poi, paradossalmente finire spesso con il fidarci, ciecamente e irrazionalmente proprio degli uomini che non ci amano.
Quando invece nostra madre è stata imprevedibile nelle sue risposte ai nostri bisogni infantili, noi diventiamo adulte vulnerabili e incapaci, a volte amabili e a volte no e vediamo anche gli altri come inaffidabili e pericolosi.
Sviluppiamo così relazioni amorose basate sull’ossessività, sul controllo ossessivo del partner e sulla gelosia perché siamo, fondamentalmente insicure e ansiose.
E’ proprio questo legame simbiotico, con la sua centralità nella vita di ognuna di noi, che fa della presenza della madre nei primi anni di vita un caposaldo dell’esistenza personale, ma, allo stesso tempo, è proprio l’enorme significato di questo legame ciò che rende indispensabile la sua rottura e decisivi i modi e i tempi in cui questo deve avvenire.
Fortunatamente questi processi psicologici infantili non determinano la nostra vita in modo rigidamente meccanico e il ruolo che nostro padre gioca con noi, nell’infanzia e nell’adolescenza, può notevolmente mitigare i “danni” di una relazione non buona con nostra madre, così come può purtroppo anche aggiungere una nuova ferita.
Perché la bambina cresca e diventi un’adulta matura, parte integrante della società, occorre, infatti, che si liberi dall’abbraccio materno e questo compito spetta al padre che educa, detta norme, corregge. Il padre, quindi, svolge innanzi tutto la funzione di contenimento dell’ansia legata alla separazione della coppia madre-figlia: la madre “sufficientemente buona” ha la capacità di soccorrere e di essere empatica, è tenera e giocosa, mentre il padre trasmette gli ideali di responsabilità, l’assunzione di decisioni, l’oggettività, l’ordine, il senso del valore personale.
Stimola nella figlia la capacità autonoma di ricerca dell’oggetto che soddisfa i suoi bisogni personali, diversi da quelli della madre.
In questo triangolo madre-figlia-padre c’è però anche il rischio per la bambina di essere stritolata nella silenziosa battaglia che i genitori giocano spesso tra loro. A volte la figlia diventa, per il padre, la complice, l’alleata contro la moglie nemica.
Oppure la figlia è amata come moglie, per compensare le frustrazioni di un matrimonio che non funziona, è idealizzata dal padre come un’amante ideale, come una moglie alternativa in un gioco di seduzione che, pur non essendo sessuale, può compromettere i nostri successivi rapporti sentimentali.
Oppure, al contrario, è la madre che chiede un patto di lealtà alla figlia contro il padre colpevole, per esempio, di non amare più la moglie.
In tutti questi casi il padre non ha saputo assolvere al compito di rompere il legame simbolico madre-figlia. E’ lui che conduce alla rottura, ci inizia al senso del dolore, e proprio grazie a questo distacco la fa crescere; senza questa triangolazione paterna, la madre e la figlia resterebbero legate in un rapporto chiuso, circolare di reciproca idealizzazione.
Un sano sviluppo dell’identità personale presuppone che ognuna di noi abbia potuto superare le ferite, inevitabilmente collegate alle prime separazioni nell’infanzia e abbia saputo trasformare positivamente queste esperienze verso un senso maturo della propria autonomia personale.
Se invece l’esserci sentite dipendenti nell’infanzia è legato ad un dolore devastante, per una precoce mancata vicinanza ai nostri genitori, che ha minacciato il nostro senso di sopravvivenza, da adulte tenderemo a negare il nostro bisogno dell’altro, riattivando la fantasia infantile di non desiderare nessun altro, per non soffrire nuovamente.
Neghiamo in altre parole, questo bisogno/desiderio dell’altro perché temiamo di trovarci di nuovo, in quella situazione di dipendenza che è stata per noi fonte di sofferenza nell’infanzia, quando non siamo state accolte dai nostri genitori.
Così facendo però rimaniamo bloccate dentro i confini stretti del nostro Io, impedendo all’amore di svolgere la sua funzione attiva e creatrice.
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Liberamente tratto da:
M.Morganti – Figlie di padri scomodi – Ed.FrancoAngeli