Sul perfezionismo “normale” e “patologico”

bicchiere mezzo pieno 1

“ La felicità non sta nella ricerca della perfezione Bensì nella tolleranza dell’imperfezione ..” Yacine Bellik

La nostra società usa regolarmente i termini “eccellenza” e “rendimento”, certamente utili per progredire e affrontare le sfide che ci vengono incontro: sviluppare una struttura, evolvere sul piano personale o collettivo. Questi termini puntano ad un miglioramento, il quale ha inizio da una visione … ci ciò che possibile. A mettere il bastone tra le ruote , a questo processo di per sé naturale, è la comparsa di un effetto perversi e il fatto che il rendimento cessi di essere un mezzo per diventare un fine in sé.

Il rendimento serve a conseguire un successo, a raggiungere un obiettivo magari difficile, ma realizzabile e concreto. Ne nasce allora un’intensa soddisfazione, visto che il desiderio era quello di svolgere responsabilmente un’attività ed evitare, per quanto possibile, errori. Se tale obiettivo non viene raggiunto una personalità “sana” e funzionale si rallegra comunque della strada percorsa e della minore distanza tra ciò che è stato ottenuto e ciò che si desiderava. Puntare all’eccellenza permette dunque di fare il meglio, avendo ben chiari i limiti e sapendo dire basta al momento giusto.

Al contrario, il perfezionista presuppone un livello intangibile: la perfezione! E poiché questo livello va oltre una “sana” volontà di riuscire, la distanza citata sopra diventa sinonimo di fallimento.

Il perfezionista cura i minimi dettagli fino all’eccesso per fare sempre meglio e, in questo modo, dichiara inaccettabile qualunque errore. Per di più, anche se tale livello viene raggiunto, lui reputa con una logica assai specifica e un ragionamento del tutto particolare che è possibile (necessario? .. obbligatorio? ..) conseguire un livello superiore. Prova dunque solo insoddisfazione, qualunque sia il risultato ottenuto.

Il problema, in ultima analisi, come ho sottolineato nei post precedenti, sta nel concetto di obiettivo da raggiungere.

  • L’obiettivo non è realistico, è indefinito. Stabilendolo troppo in alto, si crea confusione tra possibile e impossibile. In mancanza di precisione non è possibile raggiungere l’obiettivo.

Prendiamo il caso di numerose persone che desiderano un mondo perfetto pur vivendo in uno nel quale esistono guerre, carestie, malattie, sofferenze,ingiustizie … Se il mio è un perfezionismo “sano” e funzionale contribuirò come meglio posso ad eliminare in parte questa imperfezione. Così facendo servo un in ideale, una causa morale o un valore umano e agisco consapevole dei miei limiti.

Se però punto ad un risultato assoluto, posso soltanto constatare l’impossibilità del compito e cadere in depressione, perché non funziona nulla. Lo stesso dicasi se sono dogmatico, settario, fanatico o iper-controllante: “Dovrebbe essere così”, ma risultati … zero !

Magari, come un Don Chisciotte all’ennesima potenza, intraprendo una crociata e dedico la mia vita a raggiungere questo ideale, costantemente fedele a me stesso e alla mia causa, senza mai cedere ad alcuna pressione esterna, intransigente al massimo. Oppure non faccio più niente, mi arrendo, me ne lavo le mani. Si può passare da zero all’infinito e viceversa.

  •  L’obiettivo è accessibile, ma rappresenta un obbligo in tutto e per tutto: “Non lo faccio per me, bensì perché devo”. Vi sono casi in cui le sollecitazioni esterne rappresentano un meccanismo di scatto quando viene data troppa attenzione ai messaggi sociali che richiedono perfezione.

Lo sport fornisce numerosi esempi di questo passaggio dal “desiderio di fare meglio” al “dover fare meglio”. Oggi la performance sportiva viene incoraggiata, in quanto vista come valore positivo. Tutti i record sono costantemente da battere; è questa la bellezza dello sport e la grandezza data dal superare se stessi. Il pericolo, tuttavia, nasce quando il successo diventa ossessivo e le prestazioni un culto, per cui per essere il migliore in assoluto si ricorre al consumo delle sostanze dopanti. Tuttavia, infrangere le regole fondamentali dello sport barando e minando la propria integrità fisica non è più lo stesso obiettivo. Ci giochiamo la permanenza del nostro essere in cambio di una gloria effimera. Se la otteniamo,puntiamo a spingerci oltre, se non la otteniamo crolliamo, perché non valiamo nulla.

Se volere sempre il meglio finisce con il generare il peggio come riuscire a sapere quando fermarsi? Direi che anzitutto è una questione di dosi.

Da un lato c’è infatti quello che vogliamo diventare e conseguire, l’obiettivo prefissato, e dall’altro quello che siamo e che facciamo. Se il divario è troppo lieve manca la motivazione, perché non c’è sfida. Nel momento in cui siamo in grado di affrontarla, una sfida è eccitante e dà la motivazione. Ma se il divario è molto, troppo, grande si profilano varie soluzioni:

  1. Rifiutare la sfida perché ci si sente scoraggiati in partenza
  2. Ricondurre l’obiettivo da raggiungere a proporzioni più ragionevoli
  3. Lanciarsi all’avventura avendo cura di segmentare l’obiettivo per raggiungerlo a tappe successive, ognuna delle quali sia accessibile, dicendosi però che non conseguirlo non sarà un dramma e che almeno otterremo la soddisfazione di averci provato.

Chiaramente tutto è soggettivo, ma per ogni sfida che ci viene incontro o che ci poniamo è importante riuscire a stabilire quanto fattibile sia la strada da percorrere.

Questo approccio è indice di un perfezionismo “sano”: si cerca di fare meglio e questo è stimolante perché viene mantenuto un atteggiamento pragmatico , pronto ad accettare all’occorrenza la “non riuscita” piuttosto che l’”insuccesso”.

Di contro il perfezionismo è “patologico” e non funzionale quando ci si intestardisce su un obiettivo che non è accessibile e che si trasforma in una questione d’”onore” oppure “di vita e di morte”; in altre parole raggiungerlo ci costa continue sofferenze e patiamo le pende dell’inferno se non lo otteniamo.

Quando si svolge un compito, effettuare dei controlli e delle verifiche è normale e auspicabile. Tuttavia diventare troppo puntigliosi è un handicap, perché lo spreco di energia risulta esagerato. Da qui l’insoddisfazione e il senso di fallimento.

Il perfezionista funzionale ha un atteggiamento creativo: “Opero perché sia migliore”, mentre quello disfunzionale e “patologico” è rigido “Raggiungo il limite e rendo le cose impossibili”. In questo passaggio dal bene al meglio e infine al peggio, entriamo nel paradosso di ottenere il contrario di ciò che vogliamo.

E’ quindi decisamente questione di dosi, ma anche di lungimiranza e lucidità nei confronti di ciò che attualmente è e di ciò che si vuole. Avere un ideale o alti principi non è di per sé sufficiente a bollare qualcuno come perfezionista. E’ invece importante andare ad esaminare la tolleranza che si ha verso se stessi e gli altri.

Che cosa desideriamo di preciso e a cosa vogliamo mirare, quale risultato ci preme ottenere? Quale è la reale utilità di quello che facciamo?

Puntare in alto è un ottimo modo per riuscire, puntare troppo in alto diventa un meccanismo diabolico.

La persona disfunzionale esige realismo, ma è lei la prima a non averlo: vede il bicchiere mezzo vuoto mentre in realtà è anche mezzo pieno. E per di più, lo vorrebbe pieno del tutto !!! ….

….. e forse non abbiamo ancora finito, se ti va continua a seguirmi 🙂

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