Diversi processi psicologici ci rinchiudono dentro stati d’animo sgradevoli dai quali non riusciamo più ad uscire.
Il più delle volte è qualcosa di involontario e inconscio: la maggior parte di noi non è chiaramente lucida nel momento in cui comincia a scivolare e a rimuginare troppo sui propri stati d’animo negativi. Ma, a volte, siamo chiaramente più consapevoli del fatto che ci stiamo facendo del male: allora perché continuiamo? E perché così spesso lo facciamo con un oscuro compiacimento?
Ciò può essere dovuto, ed è quasi sempre così, ad una abitudine, ripetuta dentro di sé oppure osservata da bambini nei propri genitori: il padre che rimugina sulle sue preoccupazioni di lavoro per tutta la domenica, mentre la madre dice: “Bambini, lasciate in pace il papà, ha anti pensieri …”.
Curiosamente, ciò può anche essere dovuto alla sensazione di controllo che ci procura il fatto di abbandonarci ai nostri stati d’animo più cupi: così, almeno, conosciamo, padroneggiamo, siamo in un territorio che ci è familiare. “Rimuginare, quella sì che è una cosa che so fare!”, mentre nel resto della nostra vita dominano l’incertezza e la sensazione di non avere le redini in mano.
Alla fine questo stare a mollo negli stati d’animo negativi può anche procurarci il misero piacere della tetraggine soddisfatta: “sapevo benissimo che non potevo far altro che soffrire”.
Preferiamo aver ragione sia pur tristemente a rimuginare sulla nostra infelicità, che non rimboccarci le maniche e dirci: “invece di far tutto quello che è necessario per star male, esci per un’ora a camminare; se le cose non si aggiustano, non sarà comunque peggio che continuare a rimuginare ….”.
Rimuginare è focalizzarsi in modo ripetuto, circolare, sterile, sulle cause, i significati, le conseguenze dei nostri problemi, della nostra situazione, del nostro stato.
In inglese si utilizza anche il termine “brooding”= covare. Effettivamente nel rimuginare restiamo inattivi, seduti sui nostri problemi che custodiamo, bene al caldo, sotto di noi, facendoli crescere …
Si è dimostrato che, nel rimuginio, la persona si focalizza sul problema e le sue conseguenze anziché sulle possibili soluzioni da immaginare e mettere in atto, con la conseguenza, spesso di un aggravamento di tali conseguenze, così alla fine potremo sempre dirci: “me lo sentivo che avevo ragione di preoccuparmi..”.
Esiste una importante dimensione di evitamento del problema e dell’azione nel rimuginio: visto che agire potrebbe eventualmente avvicinarci ad un vero problema, così, come al contrario, potrebbe rivelarci che non c’è nessun problema o che non è insormontabile; preferiamo, rimuginando , non saperlo!
Gli stati d’animo del rimuginio contengono solo lunghe catene di pensieri a metà, pensieri incompiuti, briciole di pensieri non realizzati, che non vengono a capo di nulla perché si fermano davanti alla porta di ogni possibile decisione.
Il rimuginio non ha obiettivi precisi, e ne consegue il fatto che non può avere un fine preciso. In esso gli stati d’animo sono continuamente riciclati, irrigiditi, non evolvono ma tornano senza sosta allo stesso punto.
La domanda centrale del rimuginio è: “Perché?”
“Perché non ho preso quella decisione …. Perché ho fatto quel gesto o detto quelle parole … perché è capitato a me…?” Si tratta di un ciclo senza fine: che trovino o no una risposta, e spesso non ce n’è nessuna che sia soddisfacente, queste domanda si ripete all’infinito: Perché? Perché? Perché? …..
Quando stiamo male il punto di partenza di questo ciclo infernale può essere minimo: un interrogativo senza una risposta chiara possibile: “funzionerà?” … “otterrò quello che mi aspetto?” … “ho agito bene?” . Oppure una semplice contrarietà: “perché mi ha detto quello?” … “perché mi ha fatto questo?” …”perché non ha funzionato?” … e di qui si scatena il meccanismo.
Chiederci “Perché?” può andare bene solo se poi siamo capaci a dirci: “Basta!”. Altrimenti i nostri “perché” innescano sempre un ciclo senza fine, cerchiamo il pelo nell’uovo, il perché dei perché; il rimuginio come un interminabile contenzioso con la nostra esistenza: “O tu vita mia, perché mi tratti in questo modo?”.
Per sua natura il rimuginio spalma nel tempo le preoccupazioni e gli eventi “sfortunati”; li dilata, li riversa in tutta la nostra vita, nel passato: “è perché non ho fatto quello che dovevo che mi capita tutto questo …”, e nel futuro: “ci sarà questa e quest’altra conseguenza …”, inquinando completamente la valutazione di ciò che si dovrebbe fare rispetto a quel problema nel presente.
Sull’aria dell’”avrei dovuto”, il rimuginio ci porta continuamente nel “lì e allora” mascherandolo da presente e così facendo di fatto ne prende il posto. E non viviamo più, come se ascoltassimo un vecchio disco rotto, che ripete insistentemente lo stesso passaggio, senza più riuscire a toglierlo dal giradischi, così come non riusciamo più a fermarne il suono, né a uscire dalla stanza.